Devo ammettere che, guardando alla cultura contemporanea – italiana e non – faccio sempre più fatica a non considerarla un fallimento strutturale. E no, non lo dico da una posizione ideologica o identitaria: non è il mio sionismo a parlare, ma la delusione di chi crede che la cultura dovrebbe servire a comprendere, non a schierarsi ciecamente.
Se oggi il mondo della cultura si mostra compatto – quasi monolitico – nel sostenere il movimento propalestinese, senza alcuna sfumatura, senza dubbio, senza spirito critico, allora siamo di fronte a un problema grave. Perché la cultura dovrebbe fornire strumenti, non riflessi condizionati.
Dante scriveva: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.” Non parlava di tifoserie. Parlava della tensione umana verso la conoscenza e la virtù, verso una comprensione del reale che vada oltre l’istinto, la rabbia, il pregiudizio. Se la cultura abdica a questo ruolo – se diventa pura postura morale, slogan ripetuti, identità politica camuffata da analisi – allora ha tradito sé stessa.
E questo tradimento non è recente. È iniziato, forse, negli anni Cinquanta, quando l’impegno intellettuale ha cominciato a coincidere con l’adesione ideologica. Invece di offrire strumenti critici, la cultura ha cominciato a prescrivere le risposte. Ha smesso di insegnare a pensare, e ha iniziato a dire cosa pensare.
Oggi vediamo le conseguenze: giovani cresciuti in un eterno bias di conferma, incapaci di confronto autentico, allergici alla complessità. Si parla di “decolonizzare il pensiero” ma spesso non si sa nemmeno cosa significhi davvero “pensare”. Si citano slogan, si marcia in piazza, si urla contro il nemico designato, ma non si dubita mai di sé stessi.
Siamo di fronte a una cultura che è rimasta adolescente, che si esalta nella ribellione ma non ha mai imparato a costruire. Una cultura che parla di “liberazione” ma non sa più distinguere tra critica e odio. Una cultura che non emancipa: al contrario, rassicura, blandisce, conferma.
E allora sì, si può parlare di fallimento. Perché una cultura che non sa distinguere tra conoscenza e militanza non è cultura. È solo propaganda travestita da pensiero.
Quella sera sei tornata a casa con me, gioco aperto e, incredibilmente, mi sono comportato con gradevole simpatia, nemmeno una parola fuori posto o un gesto di troppo; quando un attimo prima di entrare nel portone mi hai baciato sulla guancia e mi hai sorriso ero ormai finito. Stasera è la stessa cosa ma non devo guardarti in viso: - Non durerà! - è la frase scritta dentro i tuoi occhi un attimo dopo il rush finale. Non è vero, non importa, ci siamo ci siamo stati, quell’amore è nostro, solo nostro Giulia, l’universo stanotte ci ha già portato via. Il blog è lì, mi rappresenta, non posso disquisire io sulla mia letteratura, sulla sua effettiva validità. Io quando scrivo sono fuori da tutto, non scrivo per nessuno in particolare apro il cuore e l’intelletto e mi lascio andare. Scrivere è la mia libertà non la baratterò con niente altro al mondo vorrei fosse anche quella di chi mi legge nell’attimo perenne dello sguardo che passa sulle parole. Ero così già a dieci anni, solo mia ma...
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